Li chiamano Baroni. Elitari, arroganti, glaciali, maleducati, irriguardosi verso gli altri e verso il loro pubblico di riferimento, gli studenti universitari. “Non c’è confronto, non c’è dialogo, non c’è rispetto. Sembra che molti docenti universitari delle Facoltà italiane facciano “un favore” agli studenti, quando presiedono i colloqui d’esame. Il risultato di tutto questo è solo amarezza e sfiducia. C’è chi fa sacrifici per pagarsi l’ istruzione e poi si sente preso in giro.
A molti docenti manca professionalità, perché, al di là della necessaria dose di umanità ed educazione in un lavoro in cui si è costantemente a contatto con i ragazzi, ci sono impegni fissi che vanno rispettati. Nonostante gli alti stipendi, dimostrano scarsa disponibilità a comunicare con gli studenti, non si presentano alle lezioni, né ai ricevimenti, non rispondono alle mail, cambiano all’ultimo le date di esami. Troppi sarebbero i casi da raccontare. Professori senza rispetto e senza umanità, convinti di essere intoccabili dall’alto della loro cattedra.”
Problemi di testa
Il relatore della mia tesi di laurea, quando seppe che ero venuto da Frosinone a Roma per chiedere la sua firma sul CD della tesi di laurea, mi disse che avevo problemi di testa. Insultandomi perché chiedevo il rispetto delle regole. Ricordo tanta arroganza, tanti maltrattamenti di questi sopravvalutati massoni e paramassoni che guidano le accademie superiori di Italia. Una casta di intoccabili, fiera del proprio ruolo, sprezzante con gli studenti, accondiscendente coi poteri forti, coi politici che contano, con le multinazionali che li foraggiano con progetti, ambiti di consulenza e ricerca.
Non è certo invidia, non è un giudizio sui meriti accademici. Molti docenti universitari sono veri intellettuali, sono veri ricercatori. Non è questo il problema, il vero problema è che loro approfittano dei loro titoli, del ruolo che ricoprano, ruoli ricoperti vuoi per merito vuoi per nepotismo, per terrorizzare e traumatizzare ragazzi di vent’anni che per la prima volta si affacciano in un modo simile.
Ricordo a tutti il termine stesso baroni, che identifica un sistema feudale dove di fronte alla plebaglia dei contadini e servi della gleba si erige il feudo, come dimostrazione del potere indiscutibile del nobile che regna sovrano, unica legge nel territorio e che deve rispondere come servo solo di altri più potenti sopra di lui. Questa è l’Università italiana, definire barone il professore universitario è risolvere l’equazione senza errore alcuno.
Spiegano complesse formule matematiche, raccontano il dispiegarsi degli eventi storici dopo l’armistizio del ’43 in Italia, disegnano grafici di macroeconomia, confrontano il pensiero politico di Machiavelli con la politica attuale, ma francamente, non hanno a cuore il rapporto con la fonte del loro potere, la massa degli studenti.
Questo è un vero peccato, perché un ragazzo che studia avrebbe bisogno di un mentore, di avere un ambiente stimolante, foriero di humus mentale e psicologico per innovare poi la società. Ma loro non voglio il rinnovamento, voglio servire il sistema, voglio riempire la pancia con i proventi dei loro spesso pedanti libri, voglio ‘squaleggiare’ liberi nel mare magnum dell’accademia italica, esenti da critiche, da problemi di stile, educazione, rispetto.
L’Articolo denuncia
E’ un problema di mentalità, non di intelligenza. Ancora, cito da “L’Espresso”, anno 2014, a firma
:Raccomandazioni, scambi di favori, meriti negati, titoli ignorati. Il concorsone per scegliere i professori è sommerso di ricorsi. Il consiglio di stato ha accolto le proteste di un bocciato e potrebbe annullare l’intera tornata di nomine. Ecco come naufragano gli atenei italiani.
I lanzichenecchi che distrussero la Lombardia nel 1630 Alessandro Manzoni li chiama proprio così, «baroni». Dal latino “baro – baronis”, termine che, dice la Treccani, indicava “il briccone, il farabutto, il furfante”. I mammasantissima delle nostre facoltà non hanno portato la peste come i soldati tedeschi che assediarono Mantova, ma di certo il loro dominio incontrastato ha contribuito a devastare l’università italiana. Dove, al netto delle eccellenze e dei tanti onesti, è sempre più diffuso il morbo del familismo, della raccomandazione e del corporativismo, a scapito del merito, delle capacità dei più bravi, della fatica dei volenterosi.Per i baroni la strada maestra per mantenere il potere e gestire il reclutamento è, ovviamente, quella di controllare i concorsi. Come dimostra l’inchiesta “Do ut des” della procura di Bari, che sta indagando per associazione a delinquere decine di professori di diritto costituzionale: «Carissimo, consegno un’umile richiesta al pizzino telematico. Ti chiederei il voto per me a Roma… sono poi interessato a due concorsi di fascia due, d’intesa con Giorgio che ha altri interessi. Scusa per la sintesi brutale, ma meglio essere franchi. A buon rendere. Grazie», si legge in una mail che il bocconiano Giuseppe Franco Ferrari ha mandato qualche anno fa a un collega, missiva ora al vaglio della Guardia di Finanza.
La lista di presunti abusi basta leggere le accuse che arrivano da ricercatori esclusi, docenti e persino premi Nobel – è impressionante: se in qualche caso sono stati promossi candidati che vantano solo dieci citazioni (in articoli e pubblicazioni varie) a discapito di altri che ne hanno oltre seicento, tre commissari di Storia medioevale avrebbero truccato i propri curriculum attribuendosi monografie mai scritte pur di far parte della “giuria”.
A Storia economica, invece, sono stati esclusi specialisti apprezzati in tutto il mondo, ma privi evidentemente dei giusti agganci: un gruppo di dodici studiosi stranieri, tra cui un Nobel, hanno così spedito al ministro Stefania Giannini una lettera indignata in cui si dicono «inquietati» dall’esito delle selezioni. I casi sono decine: da archeologia a biochimica, da architettura a chirurgia, passando per storia economica e latino, quasi in ogni settore sono stati denunciati giudizi incoerenti e comportamenti al limite dell’etica. Che spesso nascondono, sussurrano i ricercatori frustrati, la volontà dei baroni di cooptare, al di là delle reali capacità dei singoli, i predestinati e gli “insider”, cioè i candidati già strutturati nelle facoltà.”
Ripeto: è una questione di mentalità. Prendiamo la citazione di un noto scrittore giapponese: “Mio padre era un professore universitario, ragion per cui aveva le abitudini tipiche dei professori universitari. Guardava tutti dall’alto in basso, non scendeva mai dalla cattedra, neanche in famiglia. Era una cosa che non sopportavo fin da quando ero bambino”. La testimonianza è di Haruki Murakami, uno dei più celebri romanzieri giapponesi.
Dal Corriere della Sera riporto un interessa citazione tratta un libro dedicato all’argomento di questo stesso articolo.
“Si intitola «Al limite della docenza». Piccola antropologia del professore universitario , è edito da Donzelli, e dimostra che non sempre, come dice il vecchio adagio, cane non morde cane. In questo caso prof. morde prof. e rettore morde rettore. Come quello che, «magnifico di un’università del Nord in carica da ventotto anni» si levò furente all’assemblea della Crui dell’ottobre 2010 scuotendo i colleghi con parole di fuoco contro il limite di sei anni ai rettorati eterni voluto da Mariastella Gelmini e contro l’introduzione del codice etico. «L’etica si pratica, non si legifera!» Boooom! C’era il pienone quel giorno, alla conferenza dei rettori.
Troppo spesso però, secondo Pivato, l’ Homo academicus italicus somiglia a quel Bernardino Lamis protagonista d’una novella di Pirandello «descritto mentre tiene la sua “formidabile” lezione. Il docente è “infervorato” a tal punto che solo alla fine si accorge di aver parlato a un’aula priva di studenti». L’ex rettore ne è certo: «Coinvolta in scandali di vario genere, l’università è, da tempo, sotto scacco. C’è però da chiedersi fino a che punto sia utile e produttivo reagire scompostamente e non piuttosto avviare una profonda autocritica che coinvolga prima di tutto una serie di attitudini». Come l’autoreferenzialità. Due che s’incrociano dicono: «Come stai?». Al contrario, «una certa tipologia di docente ha l’abitudine di salutarti con una formula piuttosto diffusa nell’ambiente universitario e, stringendoti la mano, senza chiederti nulla, ti dice “come sto io”. Insomma parla unicamente di se stesso».
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